CAMPAGNA DI SENSIBILIZZAZIONE SULLE SCARPE
 

Oltre 3.000 persone hanno aderito alla campagna "Scarpe Giuste" e hanno scritto a Nike e Reebok per richiedere l'adozione di
un codice di condotta concordato con i difensori dei diritti dei lavoratori asiatici e l'accettazione di un sistema di controllo
indipendente e democratico. Puntualmente ogni aderente alla campagna ha ricevuto una risposta da parte di Doug Cahn,
responsabile del dipartimento diritti umani di Reebok, e da parte di Stefano Caroti, direttore di Nike Italia. Nelle loro lettere,
entrambi si sono dichiarati consapevoli dei problemi esistenti, ma nello stesso tempo ci assicurano che le cose non vanno poi
così male e che le loro imprese si sono già attivate per salvaguardare i diritti dei lavoratori. Insomma, sia Nike che Reebok si
sono mostrate così cortesi, così civili e così premurose sui diritti umani, che molti hanno cominciato a pensare di essersi sbagliati
sul conto di queste multinazionali. Peccato che l'abito - anche se ben indossato - non faccia mai il monaco.

Chi è dunque Nike? L'impresa dal volto umano, che antepone i diritti dei lavoratori al suo profitto o l'impresa tracotante, che si
ritiene in diritto di far soldi senza tenere conto delle sofferenze umane, sociali e politiche vissute da chi le fornisce i prodotti su
cui realizza i suoi lauti profitti? E gli 800 ispettori che Nike dice di aver assunto per effettuare controlli nelle fabbriche
subappaltate, con quale spirito fanno il loro lavoro, sapendo che la loro impresa si ritiene in diritto di far soldi senza dover dare
giustificazioni di sorta?

Non c'è da meravigliarsi allora che dall'Asia continuino a giungere denunce raccapriccianti. Quelle ad esempio dei lavoratori
indonesiani che producono scarpe sportive e riscuotono una paga inferiore al salario minimo legale, perché le imprese del
settore si sono rifiutate di applicare l'aumento di 500 lire al giorno decretato nell'aprile 1996 dal governo. Eppure Nike e
Reebok si sono impegnate a non entrare in affari con imprese che non rispettano i salari minimi. Oppure dal Vietnam, dove il 2
agosto 1996 è stata processata e condannata per percosse la signora Jean Mi Beck, supervisore sudcoreano della fabbrica
Sam Yang Company che produce scarpe per Nike. Ecco i fatti. Alle 10 del mattino del 27 marzo 1996 il padrone sudcoreano,
Shu Il Su, scoprì alcune scarpe mal cucite nella spazzatura, perciò chiamò il supervisore e le contestò di non aver controllato
adeguatamente le operaie. Alle 11 Jean Mi Beck scese nello stabilimento, chiamò le 15 capisquadra e le fece allineare in
semicerchio. Dopo di che cominciò a gridare che non sapevano fare il loro lavoro e che per colpa loro si erano rovinate molte
scarpe. Poi, con una scarpa impugnata per la punta le colpì una ad una sulla faccia e sulla testa.

Nella sua lettera ai consumatori il signor Caroti afferma: "Per far sì che le sue regole siano rispettate, Nike si è sempre affidata a
ispettori dipendenti diretti Nike che operano quotidianamente, e sottolineo quotidianamente, all'interno dei centri di
produzione". Ebbene, signor Caroti, quel 27 marzo 1996 dov'erano gli ispettori Nike? A controllare le condizioni di lavoro, o la
qualità del prodotto?

A nostro parere l'unico modo per garantire i lavoratori asiatici è di attivare un sistema di controllo indipendente dalle imprese.
Per fortuna, la pressione internazionale sta cominciando a farsi sentire e le multinazionali si rendono conto che, nonostante tutto,
devono cambiare rotta.
 

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