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I CONCETTI SPAZIALI

Nel '49, anno in cui realizza l'Ambiente nero alla Galleria del Naviglio, Fontana incomincia ad approfondire in termini di "pittura" la sua ricerca Spaziale, avviando il ciclo dei "Buchi". Da questa data in poi non si possono fare distinzioni nette per i successivi periodi artistici della produzione fontaniana, poiché i cicli iniziano, si sviluppano in numerose opere, ma non terminano, o meglio, vengono chiusi, ma subito ripresi ed arricchiti, o comunque mantenuti in vita e compresi in nuove ricerche.
Per comodità e chiarezza ho suddiviso ugualmente le varie esperienze in periodi, utilizzando quasi in ogni caso la denominazione data da Fontana, che, anche se intitola tutte queste opere Concetto spaziale, le chiama comunemente con altri nomi, ma si vedrà quanto queste ricerche costituiscano una sola, grande esperienza.

Fontana buca la tela per oltrepassarla, superarla, ma s'è già visto che ottiene proprio l'effetto opposto: l'atto del bucare accentua il valore della tela, della superficie, la trasforma in una presenza che, sì, lascia intuire spazialità infinite, ma che comunque si impone con la sua fisicità.
Dopotutto è lo stesso Fontana ad escludere che un'esperienza del genere possa realmente essere Spaziale. Quando afferma che "un sasso bucato [Io aggiungerei quindi anche una tela bucata, N.d.A.], un elemento verso il cielo, una spirale, sono la conquista illusoria dello spazio"
(1), egli è ben conscio dell'impossibilità di raggiungere un'arte veramente Spaziale mediante l'utilizzo degli "antichi" mezzi, perciò, anche se i "Buchi" sono nati in un contesto meramente Spaziale - sono stati ideati per la proiezione di "immagini luminose in movimento" (2) - restano comunque avvinti alla tela, anche se quest'ultima, come nota giustamente Maurizio Calvesi, "non è più una superficie, ma una materia" (3) .
Nel '53 è lo stesso Fontana a confessare che "non ci può essere una pittura o scultura Spaziale, ma solo un concetto spaziale dell'arte"
(4), questa affermazione, che può sembrare "svantaggiosa" per l'autore stesso, è in realtà un evidente segno di consapevolezza: Fontana sa che la propria opera non è in grado di "rappresentare" né di "imitare" infiniti spazi, ma ha semplicemente il ruolo di evocarli sollecitando la fantasia del visitatore. Nella serie dei "Buchi", come anche nelle successive, diviene preponderante l'importanza della capacità immaginativa del fruitore, che, solo abbandonandosi alla propria immaginazione e conoscendo almeno in parte le basi teoriche del linguaggio dell'artista, può cogliere appieno quel continuum spazio-temporale effettivamente evocato dalle opere.
Ad ogni modo, anche senza conoscerne le motivazioni teoriche, i
"Buchi" non possono essere intesi come semplici decorazioni della superficie pittorica, la loro stessa disposizione, continuamente variata negli anni, è indizio di ricerca. I primi buchi sono disposti come nuclei, vortici in cui le fratture della tela, bianca se non addirittura acroma, sono numerose e caotiche. Illuminate a luce radente le sporgenze dei fori gettano piccole ombre che evocano spazi cosmici, ignote galassie, mondi lontani.

"La loro genesi", afferma De Marchis, "è probabilmente da cercare in una trasposizione tecnica: la stecca da ceramista [...] o un altro strumento da scultore atto a scavare o a modellare la forma in rilievo, buca il foglio di carta, tradizionale supporto piano dell'immagine, andando oltre lo schermo bidimensionale della rappresentazione e aprendo la strada allo spazio a infinite dimensioni", e aggiunge : "il gesto di Fontana non è più né quello dello scultore né quello del pittore: è veramente un gesto demiurgico" (5).

Col passare degli anni un nuovo ordinamento dei buchi occupa la tela, che, a volte, è colorata, ma sempre monocroma (fig. 57). Fra il '50 e il '51 i buchi sono disposti in maniera piuttosto regolare, secondo un certo ordine, ritmico e sicuramente elegante, sono inoltre, molto spesso, di forma quadrangolare. Ma presto, fra il '51 e il '52, il tema del vortice torna ad interessare l'artista. I fondi delle tele sono quindi mossi da spruzzi di lustrini (fig. 59)  e da macchie ottenute mediante il "flottage" e il "dripping". Fontana intuisce così un ulteriore sviluppo, in senso materico, della serie. Giunge infatti, nello stesso '52, ad accumulare sulla tela pietre vetrose e sabbie colorate, dando vita alle "Pietre".

È soprattutto nel '53 che Fontana, dopo aver bucato la tela ed esservi intervenuto col colore, sviluppa la serie delle "Pietre", che, sin dai primi anni, si distingue in due differenti motivi: nel primo i frammenti di vetro sono un semplice contrappunto ai buchi, disposti in ordine ritmico (fig. 60); nel secondo, invece, a fianco ad una disposizione sempre regolare dei buchi, si vengono a formare grumi di materia, accozzaglie di sabbie e pietre colorate (fig. 61 e fig. 62), che accentuano il senso di riposo delle zone in cui la tela è libera.
Come si può facilmente notare la serie non si discosta troppo dalla precedente: sono sempre presenti i buchi, ordinati come nelle opere del '50-'51; la tela è sempre "accentuata" dalla frattura, pur volendo invece essere "superata". L'unica differenza che salta agli occhi è la diversa maniera di utilizzare il colore, ora decisamente informale e densamente materico nell'applicazione di pietre vetrose e sabbie.
Osservando le
"Pietre", dice Crispolti,

"ritornano [alla mente] le immagini di certe invenzioni, d'ori e d'argenti, e incanti cromatici, di Klimt, di materie artificiali di Balla, dei celebri 'lustrini' di Severini futurista (e un'eco persino di antichi splendori musivi)" (6),

ma anche la libera utilizzazione di materiali di Wildt.

Prima di introdurre il ciclo dei "Barocchi", iniziato nel '54, è opportuno ricordare che Fontana, come artista, ha due componenti, la prima barocca, decorativa, tendente alla "spettacolarizzazione", alla risata fragorosa, la seconda essenziale, protesa alla purezza, alla semplificazione, al sorriso appena accennato. I "Barocchi" sono una serie in cui è visibilmente preponderante la prima delle tendenze stilistiche testé indicate, la seconda è invece prevalente nei "Tagli".
Il richiamo all'arte del periodo barocco è consapevole in Fontana, nello stesso
Manifiesto Blanco - ed in seguito nel Manifesto Tecnico - il Barocco è indicato come passaggio fondamentale per la nascita dell'arte moderna. È in questo periodo che "comincia la rappresentazione dello spazio", uno spazio "rappresentato con una grandiosità non ancora superata", in un tempo in cui "la fisica [...], per la prima volta, esprime la natura per mezzo della dinamica". Questa inflessione barocca si concretizza particolarmente fra il '54 ed il '57 in un ciclo in cui sulla tela si condensano materiche "forme", appunto, barocche.
In queste opere, a volte, la materia si ordina in riquadri e curve, quasi a suggerire profili e ritratti (
fig. 64), altre volte è la forma stessa del quadro a variare, divenendo ad esempio esagonale, o trapezoidale (fig. 65). Tecnicamente, come le "Pietre" sono caratterizzate dall'uso di sabbie e pietre vetrose, anche i "Barocchi" presentano una peculiarità: l'abbondante uso di lustrini, che rendono estremamente gioiose queste opere:

"Su fondi rossi o bianchi o scuri ecco delle sagome festose e suggestive, vivacissime di colore, che si offrono allo sguardo. Ed in queste sagome appaiono inattese trame di lustrini brillanti che creano come una sarabanda di luci, in questi lavori" (7).

Come per bilanciare in una qualche maniera la gioiosità dei "Barocchi", ai quali sono emotivamente opposti, appaiono i "Gessi". Essi hanno un tono cupo, drammatico, dovuto all'uso informale di pastelli dal colore scuro: bruni, grigi, verdi.
Avviato nel '54 il ciclo si svolge parallelo a quello dei
"Barocchi" sino al '57, per terminare un anno dopo, nel '58. La superficie della tela sembra in questo caso quella lunare, la stesura del colore suggerisce l'immagine di mondi o, altre volte, di profili montuosi - che Fontana chiama familiarmente "panettoni". Larghe zone di colore piatto, definite dall'artista "muri", si scontrano con forme spettrali, trapezoidali, rettangolari oppure, analogamente ad alcune sculture realizzate negli stessi anni, a forma di fiore o di farfalla (fig. 67).
Nei
"Gessi" anche i buchi cambiano tipologia, diventano violenti, provocano strappi, accentuando l'intonazione grave e quasi tragica che i colori trasmettono.

Gli ultimi "Gessi", quelli del '57-'58, che presentano una intonazione meno cupa dei precedenti, figurano spesso col titolo di "Inchiostri", inventati da Fontana quando, affievolitasi la spinta barocca ed esauritasi la tensione drammatica, si abbandona ad opere di libera scrittura astratta. I fondi delle tele sono dipinti con aniline e la figurazione mostra un approccio lirico al problema dell'evocazione spaziale e cosmica. "Nelle opere attuali", dice Agnoldomenico Pica riferendosi agli "Inchiostri", "la negazione di un tempo è superata da una nuova, inattesa, energia vitale" (8).
Le prime tele quasi non presentano forme definite, sono semplicemente ampie stesure di colore , in cui si sente quella spinta alla purezza che si preciserà, l'anno dopo, nei
"Tagli". In quelli che sono, invece, gli "Inchiostri" più tipici di Fontana, appaiono forme irregolari, a volte a collage, attorno alle quali si srotola il segno grafico, la libera linea del pennello . Queste forme, che spesso riportano alla mente figure di farfalle, sono strettamente collegate, come i "Gessi" dello stesso genere, alle sculture del '57-'58 (fig. 70). Queste opere, che per la loro semplicità strutturale sono una sorta di "antisculture" (9), hanno un'architettura essenziale, giocata sul rapporto fra il sottile gambo e il corpo che si espande nello spazio.
Altri "Inchiostri", realizzati nel '58, sono quasi degli scarni paesaggi ridotti alla sola linea dell'orizzonte, altri ancora rendono un indistinto effetto nebuloso. Sarà su queste tele che Fontana interverrà producendovi i primi "Tagli".
Gli "Inchiostri" influenzano i "Buchi" della fine degli anni '50. La tecnica della colorazione dei fondi ad anilina viene adottata attorno ai nuovi buchi, che tendono quasi a circoscrivere delle immagini. Negli anni '60 il supporto preferito dall'artista è invece la tela naturale, in questo periodo egli continua a sviluppare la serie dei "Buchi", i cui fori progressivamente si dispongono sulla tela in forma ovale, ispirando la
"Fine di Dio" e le "Ellissi".

Del '58 è l'avvio del più "famoso" ciclo di lavori realizzato da Fontana: i "Tagli". In queste opere è il Fontana amante dell'ordine e della pulizia, a prevalere.
I "Tagli" sono anticipati da esperienze su carta-telata industriale, dipinta e tagliata, le cosiddette
"Carte", che, eseguite fin dal '57, contraddicono la "leggenda" riportata dal De Marchis che vede la genesi dei "Tagli" in un atto casuale:

"Si dice che [Fontana,] dopo il successo consacrato dalla sala alla Biennale del 1958, irritato o deluso dalla piacevolezza decorativa delle proprie opere recenti, ne abbia colpita una non riuscita con una lama, producendovi un taglio che gli rivel[ò] immediatamente la potenzialità di quel gesto creativo" (10).

Anche se i primi "Tagli" propriamente detti sono effettivamente realizzati sugli "Inchiostri" - quindi la riutilizzazione di opere preesistenti c'è davvero - l'esistenza delle "Carte" attesta un percorso che non si può semplicisticamente collegare ad un atto casuale come l'episodio appena riportato.
Per i
"Tagli" si potrebbe ripetere il discorso già fatto per i "Buchi", ma non è necessario, è ora invece importante riprendere quanto si è accennato introducendo i "Barocchi", ovvero la tensione fra "spettacolarizzazione" e purezza; è ques'ultima, naturalmente, che si accentua nei "Tagli", unita al richiamo al primitivo, che, sostanzialmente, è anch'esso necessità di sintesi ed essenzialità.
"Questa componente gli deriva, culturalmente, dagli sviluppi dell'Astrattismo"
(11), scrive Ballo, ricordando quanto Fontana ammirasse Kandinskij. Il critico afferma inoltre che la tendenza alla purezza

"è, in sostanza, una componente opposta a quella barocca: se mai, più simile all'astrazione bizantina, che dava valore alla superficie cromatica a alla grafia" (12).

I primissimi "Tagli" (1958) presentano tele colorate, con tagli disposti casualmente; subito dopo, nel '59, appare una volontà di ordine e purezza che si concretizza nel monocromatismo della tela e nella più regolare sistemazione dei tagli, che tendono ora ad imporsi come strutture primarie. Ma i primi "Tagli" propriamente detti lasciano vedere il muro, perdendo parte dell'effetto che vorrebbero avere, perciò Fontana applica dietro alle tele una copertura di garza - non tesa, ma allentata, in maniera da risultare all'occhio come zona scura - per rendere il taglio più misterioso e, attenuandone la violenza, accentuarne il significato concettuale, che è chiaramente tendente all'assoluto più che nei "Buchi", i quali restano ancorati ad un segno gestuale forse troppo fisico per essere puro.
Un richiamo a una purezza mancata c'è però sin dal titolo, in questi Concetti. Afferma Crispolti:

"I 'Tagli' fin dall'inizio Fontana li ha chiamati 'attesa' o 'attese' [a seconda che si trattasse di uno o più tagli, N.d.A.], specificandovi la loro natura di 'concetti spaziali'. 'Attesa' tuttavia in un significato piuttosto ampio e volutamente ambiguo, che va da un'ipotesi avveniristica [...], che è comunque prevalente, e si apre ad un'intenzione contemplativa quasi metafisica, fino ad un'allusione sessuale, anche se di un simbolismo erotico depurato quasi all'astrazione" (13).

Diverse sono le tipologie dei "Tagli", che si differenziano principalmente per la quantità e la disposizione dei tagli stessi. Dalla tela con un unico taglio, disposto obliquamente e leggermente arcuato, a quella, sempre con un solo taglio, ma disposto verticalmente (fig. 73), si passa a tele con coppie di tagli che possono essere paralleli (fig. 74), convergenti o contrapposti verticalmente (fig. 75), sino a giungere a superfici segnate da una pluralità di tagli a volte della stessa misura, altre volte di misure diverse (fig. 76).
Il colore, nei "Tagli", non ha importanza alcuna:

"Il bianco", afferma Fontana, "l'ho usato molto [...]. Ma poteva essere nero. Io lo volevo fare rose choc, rose, quello di moda, lo volevo far nero, non aveva importanza il colore... non ha nessuna importanza, agli effetti del mio pensiero, il bianco o il rosso o il giallo..." (14).

Guido Ballo sottolinea questa caratteristica dei "Tagli":

"A lui interessava la presenza del segno gestuale sulla superficie, il rapporto tra questo segno e tutta la superficie: insomma il valore grafico nella misura dell'insieme. Quando doveva allestire la sala alla XXXIII Biennale, nel '66 [...], voleva presentare un'opera sola, bianca, con un taglio, rendendo ellittica, ma neutra, la sala stessa. Mi ripeteva: 'Conta l'idea, basta un taglio'" (15).

In realtà alla Biennale del '66 presenta più di un'opera, ma esse sono comunque poche e tutte bianche con un unico taglio, inserite nell'ambiente, da lui stesso progettato, a sua volta bianco.
I "Tagli" sono i lavori ai quali Fontana affida, anche se non esclusivamente, tutte le sue sensazioni componendo una sorta di diario personale attraverso le scritte che pone con regolarità, a partire dal '64, sul retro delle tele. Queste scritte, che assolvono anche il compito di facilitare il riconoscimento d'autenticità delle opere e che prima del '64 sono costituite semplicemente da numeri e lettere, ora presentano accenni alla natura ed alle imprese spaziali, ad avvenimenti politici  e sportivi, ad incontri ed a fatti privati. Nel '66 il tono inizia però a cambiare, l'orizzonte si restringe all'ambito domestico, scompaiono i giochi di parole, si fanno più ricorrenti i riferimenti alle proprie condizioni di salute ed alla propria stanchezza, mentre le frasi sulla natura si velano di malinconia.
Per concludere il discorso sui "Tagli" sono da ricordare i
"Quanta", iniziati nel '59, che sono costellazioni di quadri dalla differente forma geometrica, ciascuno dei quali segnato da uno o più tagli e raramente da buchi. Ogni elemento dell'opera è però autonomo: da questa caratteristica deriva la libertà nella composizione dell'insieme, che può variare forma senza problema alcuno.

Durante l'estate del '59 Fontana torna ad Albisola dove realizza le "Nature", grandi sculture in grès, sferoidali, che l'artista violenta, squarcia, buca:

"La chiave delle sculture è nella loro minacciosa vitalità, fra vegetale e animale: questi frutti gonfi e ciechi, carichi di una linfa che tende la loro superficie come una pelle, che sembrano, per i vuoti e pieni sulla pur tonda 'cassa' dar quasi la misura di un respiro, sono stati aggrediti dall'artista il quale ha compiuto su di loro una specie di profanazione" (16).

Realizzandole Fontana pensa alla luna, al cosmo, "pensavo a quei mondi, alla luna con questi [...] buchi", ma le "Nature" appaiono più profondamente primordiali, riconducono al magma delle origini, forse anche per via del materiale (antichissimo) utilizzato dall'artista: il grès. Pur inneggiando all'"evoluzione del mezzo nell'arte", Fontana continua infatti a utilizzare materiali tradizionali. Il discorso si ricollega quindi a quello già fatto per i Concetti in generale: l'opera lascia intuire il futuro, evoca cosmi sconosciuti, spazi infiniti, ma resta antica nella sua fisicità.
Le
"Nature", che Fontana chiama familiarmente "palloni", sono in alcuni casi riprodotte in bronzo e, come tutti i suoi lavori, sono da vedere nell'opportuna ambientazione, "perché si tratta sempre di opere che tendono ad ambientarsi come presenze vive" (17).

All'inizio degli anni '60 è l'impiego dell'olio a catturare l'attenzione di Fontana. L'utilizzo del colore è eminentemente materico.
I primi "Olii" presentano il materiale pittorico solo in alcune zone della tela, raggrumato in forme che possono ricordare le "Pietre", o steso in grandi forme che riportano alla mente i "Gessi". Ma, col tempo, gli
"Olii" acquistano una precisa tipologia:

"Progressivamente l'esercizio [...] del graffiare delineando forme spaziali e del bucare profondamente la superficie che l'olio ispessisce diviene un modo tipico di un nuovo ciclo di opere di Fontana, nelle quali si rinnova un contatto diretto con la materia come già avveniva nelle tavolette in terracotta durante gli anni Cinquanta" (18).

L'olio, in genere monocromo, è nel '61 sostituito dalla vernice oro e argento e affiancato dal rinnovato uso delle pietre. Le opere di questa serie non sempre presentano buchi, a volte sono segnate da tagli o da strappi che tentano "analogie formali con un vago accento erotico e persino una sorta di fantastica descrizione nel ciclo eccezionale di grandi tele dedicate a Venezia" (19). Queste tele, esposte ad Arte e Contemplazione a Venezia ed alla Martha Jackson Gallery di New York, appassionano l'artista al punto tale di tentare una analoga interpretazione dei grattacieli Newyorkesi.
Questa nuova serie, che apre il ciclo dei
"Metalli" - di cui si possono distinguere due tipologie - viene sperimentata da Fontana prima con la stessa tecnica degli "Olii", nelle opere del '61, e poi definita nell'utilizzazione del metallo.
Le opere espressamente collegate al tema della metropoli americana appaiono più minuziose, costituite da segni prevalentemente rettilinei, incisi . Quelle che sono invece realizzate al di fuori della suddetta serie mostrano un atteggiamento più violento verso la lastra metallica, che viene tagliata e squarciata, non semplicemente incisa e graffita (
fig. 84).
Dal '62 il grafismo degli "Olii" è sempre più libero, gli strappi divengono squarci, violenze che rappresentano il dolore di un "uomo di tipo nuovo", l'astronauta:

"Rappresentano il dolore dell'uomo nello spazio. Il dolore dell'astronauta, schiacciato, compresso, con gli strumenti infissi nella pelle è diverso dal nostro. [...] È un uomo di tipo nuovo quello che vola nello spazio, con nuove sensazioni, soprattutto dolorose" (20).

Nel 1963 Fontana inaugura un ulteriore ciclo della sua arte, quello forse più esplicitamente religioso del periodo dello Spazialismo: la "Fine di Dio".
Nel chiuso di queste tele dalla forma ovale sempre del medesimo formato Fontana orchestra buchi e strappi a volte in zone circoscritte (
fig. 85) , altre volte su tutta la superficie pittorica (fig. 86), non di rado accompagnati dal graffito dello strato di olio monocromo che ricopre la tela. Anche queste opere, di un cromatismo acceso, necessitano di una particolare ambientazione, "perché", afferma Ballo, "hanno bisogno di respirare sulle pareti nude, luminose" (21).
Questi lavori sono intitolati dallo stesso Fontana "Fine di Dio", ma anche "Le ova", sottolineando in entrambi i casi la loro connotazione di sacralità, poiché l'uovo è "simbolo dell'Immacolata Concezione e della Natività, e simbolo ad un tempo della Resurrezione del Cristo"
(22):

"La 'Fine di Dio'", afferma Crispolti, "[...] è per Fontana una sorta di conversione spaziale d'ogni ipotesi di figurazione divina antropomorfa" (23).

"Naturalmente", precisa l'artista, "la 'Fine di Dio' non intesa nel senso religioso cattolico, la 'Fine di Dio' per me significa l'infinito, la cosa inconcepibile, la fine della figurazione, il principio del nulla" (24).

L'anno dopo la creazione della "Fine di Dio" Fontana inizia a realizzare i "Teatrini" ('64-'66), per i quali l'artista conia il termine di "Spazialismo realista". Una bella descrizione di queste opere viene da Crispolti:

"[I 'Teatrini'] rappresentano un'ipotesi di figurazione spaziale, ove un cielo spazialmente solcato da buchi in diverse costellazioni ci appare attraverso la riquadratura della cornice che ha lembi variamente figurati" (25).

Proprio questa cornice cambia tipologia nel tempo: i primi "Teatrini" suggeriscono forme astratte, che divengono in seguito figurative, alberi in particolar modo (fig. 87 e fig. 88):

"La tipologia delle forme figurate sui lembi delle cornici è assai varia, ma [...] ha costantemente un riferimento spaziale [...]: onde, anche magari molto stilizzate (quasi vagamente art nouveau); forme tondeggianti, monti o funghi atomici, a volte con un profondo taglio superiore, forme a serpente irregolari. Ma altre volte sono chiaramente alberi spaziali, oppure un orizzonte basso, minuto, indistinto che lascia campo al cielo infinito" (26).

Il colore di queste opere è generalmente monocromo o, al più, bicromo, con un differente colore fra tela e cornice, tra "fondale" e "quinte".

Nel 1967, quando soltanto un anno lo separa dalla morte, l'artista è ancora fortemente creativo, non solo portando avanti la serie dei "Tagli" e realizzandone alcuni di grande intensità, ma dando vita, ancora una volta, a nuove esperienze, come le "Ellissi" e le nuove sculture in metallo smaltato, entrambe realizzate da Sergio Tosi a Milano, su preciso disegno di Fontana.
Le
"Ellissi" sono tavole in legno laccato di forma, appunto, ellittica che, nella perfezione dei buchi fatti col trapano e nella nettezza dei profili, sembrano quasi proporre uno sviluppo vagamente macchinistico-tecnologico dell'arte fontaniana:

"Negli anni delle effettive conquiste spaziali dell'uomo l'arte spaziale non può esser più, sembra voler dimostrare Fontana con questa sua estrema invenzione, una supposizione immaginativa e concettuale, al di là del rapporto meccanico, ma deve nascere immaginativamente proprio sulla realtà meccanica e tecnologica, in una nuovissima proiezione spaziale appunto meccanica, oggettiva, assoluta" (27).

Luciano Colavero

 

 

 

(1) Lucio Fontana, Manifesto tecnico dello Spazialismo, 1951. (Torna)
(2) In occasione di una trasmissione televisiva sperimentale della RAI-TV di Milano nel 1952. (
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(3) Maurizio Calvesi, 7° Premio Modigliani. L'Informale in Italia fino al 1957, Livorno, 1963. (
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(4) Lucio Fontana, Galleria del Naviglio, Milano, 18 aprile 1953. (
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(5) Giorgio De Marchis, L'arte in Italia dopo la Seconda Guerra Mondiale, in Storia dell'arte italiana, il Novecento, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1982. (
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(6) Enrico Crispolti, Lucio Fontana, Catalogo Generale, Edizioni Electa, Milano, 1986. (
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(7) Giorgio Kaisserlian, Mostre d'arte. Giovinezza di Fontana, "Il Popolo di Milano", Milano, 6 febbraio 1957. (
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(8) Agnoldomenico Pica, Fontana, Galleria del Naviglio, Milano, 10-23 febbraio 1959. (
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(9) Enrico Crispolti, Lucio Fontana, Catalogo Generale, Edizioni Electa, Milano, 1986. (
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(10) Giorgio De Marchis, L'arte in Italia dopo la Seconda Guerra Mondiale, in Storia dell'arte italiana, il Novecento, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1982. (
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(11) Guido Ballo, presentazione a Lucio Fontana, Palazzo Reale, Milano, 19 aprile - 21 giugno (prorogata al 31 luglio) 1972. (
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(12) Ivi. (
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(13) Enrico Crispolti, Lucio Fontana, Catalogo Generale, Edizioni Electa, Milano, 1986. (
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(14) In Carla Lonzi, Autoritratto, De Donato, Bari, 1969. (
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(15) Guido Ballo, presentazione a Lucio Fontana, Palazzo Reale, Milano, 19 aprile - 21 giugno (prorogata al 31 luglio) 1972. (
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(16) Marcello Venturoli, Suggestive opere a Palazzo Grassi nella mostra "Dalla natura all'arte", "Paese Sera", Roma, 16-17 luglio 1960. (Torna)
(17) Guido Ballo, presentazione a Lucio Fontana, Palazzo Reale, Milano, 19 aprile - 21 giugno (prorogata al 31 luglio) 1972. (
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(18) Enrico Crispolti, Lucio Fontana, Catalogo Generale, Edizioni Electa, Milano, 1986. (
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(19) Ivi. (
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(20) Fontana in un'intervista di Mario Pancera, Lucio Fontana, il creatore dell'arte spaziale. Sfregia i quadri alla ricerca del dolore degli astronauti, "La Notte", Milano, 19-20 dicembre 1962. (
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(21) Guido Ballo, presentazione a Lucio Fontana, Palazzo Reale, Milano, 19 aprile - 21 giugno (prorogata al 31 luglio) 1972. (
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(22) Gillo Dorfles, Lucio Fontana, Le Ova, Galleria dell'Ariete, Milano, 11 giugno 1963. (
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(23) Enrico Crispolti, Lucio Fontana, Catalogo Generale, Edizioni Electa, Milano, 1986. (
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(24) Fontana in un'intervista a Carlo Cisventi, 1963. (
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(25) Enrico Crispolti, Lucio Fontana, Catalogo Generale, Edizioni Electa, Milano, 1986. (
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(26) Ivi. (
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(27) Ivi. (
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